INTERVISTA10 mag 2022

Ligabue: “Che sofferenza gli ultimi 3 anni! Sul palco mi sento a casa”

Luciano, in diretta su Radio Italia solomusiciataliana dal Reward Music Place, si racconta apertamente, ricordando tutta la sua vita raccontata nell’autobiografia “Una storia”. Negli ultimi giorni, è arrivato anche un nuovo singolo che anticipa il suo imminente sul palco a Campovolo e all’Arena di Verona

Luciano Ligabue torna a Radio Italia solomusicaitaliana per raccontare “Una storia”, la sua. Si chiama così l'autobiografia che il rocker presenta tra gioie e dolori, in diretta dal Reward Music Place, insieme ai nostri Mauro Marino e Manola Moslehi. Non è la sola novità che Luciano ha pensato per i fan: venerdì 4 maggio è uscito il suo nuovo singoloNon cambierei questa vita con nessun’altra”, prima del suo grande ritorno a Campovolo per festeggiare, dopo i vari rinvii, i 30 anni di carriera, prima del doppio appuntamento all’Arena di Verona.
Ti stai preparando, manca poco a Campovolo, il 4 giugno...
Finalmente possiamo dire che manca poco! Da un paio d’anni dobbiamo tenere botta, non mi è mai successo di fare una pausa di quasi 3 anni dall’ultima volta in cui sono salito sul palco. Manca poco e sto contando le ore, stiamo arrivando!
L’attesa ha aumentato il desiderio...
Per quanto mi riguarda, questo è poco ma sicuro. Temo di non riuscire a gestire tutta l’emozione che è in incubatrice da troppo tempo e che alla fine esploderà in quella situazione, con l’inaugurazione della nuova arena di Campovolo, di fronte a così tante persone che aspettano da così tanto tempo. Ma spero che sia un po’ come andare in bicicletta…
Nel frattempo, hai scritto l’autobiografia “Una storia” e hai lanciato anche il nuovo singolo “Non cambierei questa vita con nessun'altra”.
Più che un singolo, è proprio una canzone che è nata dopo aver scritto questo libro. Facendomi rivivere tutta la mia esistenza, questo libro ha fatto sì che mi sentissi grato e riconoscente e sentissi di dover dire un grande grazie a chi mi ha permesso di vivere la vita che ho vissuto fino ad adesso. Da lì, è nata questa canzone che dice appunto ‘non cambierei questa vita con nessun’altra’, e mi son detto: ‘Questa canzone la devo fare a Campovolo! Non la posso cantare da solo’. Così, l’ho fatta uscire subito.
Hai detto che l’hai scritta di getto…
È andata proprio così. ‘Non cambierei questa vita con nessun’altra’ è un’affermazione forte, ma volevo esprimere proprio quello. A volte diamo per scontate troppe cose; quando invece mettiamo il focus su quello che abbiamo avuto e su come siamo, penso sia doveroso e sano avere gratitudine e ringraziare per una vita unica e piena.
C’è tanto amore in questa canzone: ascoltandola si capisce che c’è amore nei confronti del tuo pubblico, e viceversa.
Devo moltissimo, ovviamente, anche a loro perché è fuori dubbio che gli ultimi 32 anni (a parte gli ultimi 2) sono stati anni da privilegiato.
Che tipo di bambino era Luciano?
Sono stato un bambino che ha vissuto un’infanzia felice, anche con un po’ di traversie di salute: nel libro racconto i problemi importanti nella prima fase della mia vita. È stata un’infanzia trascorsa negli anni ‘60, che sono stati un’epoca speciale per questo Paese. Credo di essere stato un bambino con parecchi amici e, soprattutto, conoscevo i giochi fisici: in provincia, in prossimità della campagna, comunque giocavi sempre nei prati e facevi addirittura il bagno nei canali d’estate. Questo tipo di esperienze credo mi abbiano in parte formato, ma soprattutto mi piaceva l’idea che le mie foto da bambino finissero in un video, per dire: ‘Guarda come è andata a finire!’. Sembra quasi un contrasto impensabile. Da piccolino io sognavo di fare l’attore…
Molte di queste cose le hai scritte nel tuo nuovo libro “Una storia” e fanno rivivere proprio quel periodo.
La cosa veramente emozionante è stata scrivere questo libro come se tutto quanto stesse scorrendo in tempo reale. Parte dalla nascita, come se la potessi raccontare in tempo reale, e tocca ricordi reali, altri adattati: permette di vivere l’emozione di tutti questi aspetti che hannno accompagnato infanzia, adolescenza, maturità e gli anni di questo mestiere nelle parti più personali. È il “retro” delle luci della ribalta. Questo ha fatto sì che vivessi tutto con una forte emozione: mi sono reso conto di quanto non sia un caso che sono così legato al Paese in cui vivo da sempre e al concetto di famiglia. Arrivo da una famiglia super-modesta che mi ha trasmesso una grandissima voglia di vivere e una grandissima capacità di gioire sempre e comunque: non a caso, ho dedicato il libro ai miei genitori.
Descrivi anche il tuo percorso artistico, che è iniziato tardi rispetto ad altri tuoi coetanei.
Diciamolo brutalmente: mentre nel rock a 27 anni, purtroppo, in tanti ci hanno lasciato, io a 27 anni ho cominciato! L’esatto opposto dell’enfant prodige, ma non so dire come mai. Fino a quel momento non pensavo di fare questo mestiere, scrivevo canzoni ma era come risolvere un cruciverba, ne scrivevo di veramente brutte. Poi, un giorno, è uscita questa canzone che, nella sua semplicità, raccontava di un mio sabato sera e metteva nel titolo due parole importanti per me: sogni e rock’n’roll. Quella è stata la prima volta in cui ho sentito di avere una voce: da lì in poi, ne sono nate altre e nel 1987, quando avevo appunto 27 anni, mi sono seduto su un palco e ho capito cosa volevo fare nella vita. Fortunatamente, da allora, sono stato su 800 palchi.
Quindi, quel primo concerto ti è rimasto impresso.
Per me è stato il ‘big bang’ in assoluto. Io sono un timido di natura, che però sul palco di colpo si sente a casa e si sente sicuro di sé, tranquillo nel fare quello che fa. Non so perché, ma lo si vede: c’è una parte di me che mi fa soffrire quando devo star lontano, appunto, da un palco. Immaginerete la sofferenza degli ultimi quasi 3 anni. Però è una parte che mi permette di capire quanto, in quella situazione, riesca ad esprimermi naturalmente su di me e sul mondo. Lo faccio più lì che nei dischi e credo, personalmente, che il modo migliore per dire ‘Luciano sì’ o ‘Luciano no’ sia vedermi dal vivo almeno una volta. Per me, è il modo più giusto per scegliere se seguirmi o no, ancora di più che ascoltando i miei dischi.
Se all’ascolto ci fosse qualcuno che non ha ancora letto il tuo libro, cosa si sta perdendo?
Questo libro si chiama ‘Una storia’ perché è, molto semplicemente, una delle quasi 8 miliardi di storie attualmente in corso su questo pianeta. A differenza delle altre, questa è la storia che io conosco meglio di tutte e di tutti: non so dire bene quali siano i motivi che mi hanno portato a scriverla, però so per certo di cosa si è caricato emotivamente questo libro man mano che lo scrivevo. È pieno veramente di affetto, anche nei momenti drammatici, ce ne sono diversi. Questo percorso mi ha portato a vedere, via via, gli incroci di questa storia con quella del nostro Paese; c’è anche una parte in cui cerco di spiegare come ci fosse un pre-telefonini e un post-telefonini per chi fa concerti. È sicuramente il libro più voluminoso e sostanzioso tra quelli che ho scritto, anche perché, essendo il libro sulla mia vita, volevo che fosse anche quello della mia vita.
C’è anche Pierangelo Bertoli nel tuo percorso artistico.
È stato decisivo per me. La sua grandezza la racconta anche il modo in cui ci siamo conosciuti: io mi vergognavo come un cane a far sentire le mie canzoni e, fortunatamente, c’era il mio amico manager che invece aveva la faccia tosta di farle ascoltare in giro. Un giorno fa una cosa ovvia, prende l’elenco telefonico e chiama Bertoli: ‘Salve, io vorrei parlare con Pierangelo’. A rispondere al fisso era direttamente lui, così gli chiese dove poteva mandare una cassetta. Bertoli rispose: ‘Cosa fate stasera? Se avete tempo, me le fate ascoltare’. Potevamo essere due psicopatici e, invece, da lì è nata un’amicizia decisiva: mi fece conoscere il produttore del mio primo album e cantò, in un suo album, quella famigerata ‘Sogni di rock ’n’ roll’, che mi diete molta autostima. Lì ho capito che, se Pierangelo Bertoli decide di cantare una mia canzone, è giusto che io ci provi.
In questo libro ci sono dei ricordi bellissimi legati alla provincia. Qual è il tuo ricordo più bello della tua vita e quello più brutto?
Per quanto riguarda il più bello, non me la sento di fare una classifica del genere, perché fortunatamente ho avuto motivo di godere di diversi momenti della mia vita. Fra i più brutti, sicuramente, vanno segnalate le perdite, da mio padre a un cugino che era stato come un fratello per me a cui dedicai la canzone ‘Lettera a G.’. Nel libro, c’è un racconto anche fin troppo dettagliato di come se ne sono andati., così come della perdita di un figlio al sesto mese di gravidanza: è un dolore non così noto, che si capisce soltanto se lo si vive, non è come perdere un bambino nei primi 3 mesi. Non so se parlarne significa anche lasciarseli alle spalle con più leggerezza, ma credo di aver individuato nel rapporto con il pubblico, da ‘Miss Mondo’ in poi, una fiducia che mi ha spinto a darmi e a raccontarmi di più. Più di così, non potevo!
Mi sento di dover ringraziare mamma Rina perché, accarezzando la tua cicatrice, ti ha fatto capire, ogni volta che la guardi crescendo, che ce l’hai fatta.
La cicatrice è cresciuta con me, era una peritonite beccata a un anno e mezzo, quando nessuno lo aveva capito ed ero pronto a salutare il pubblico un po’ troppo prematuramente. Mi piace pensare che il senso delle frasi di mia madre, anche se non le posso ricordare, fosse quello.
Torniamo a Campovolo… Facciamo degli spoiler!
Il concerto dura 12 minuti, voce e chitarra acustica… Non mi credete? Allora facciamo un concerto di 4 giorni! Parlando seriamente, non voglio fare spoiler, ma vi confermo una cosa che vi aspettate, perché a Campovolo è sempre stato così: al di là di una serie di sorprese, ci saranno tutti quelli che hanno suonato con me.
Poi arriveranno due date importanti all’Arena di Verona, dopo 9 anni...
Sì, a fine settembre. Semplicemente mi hanno chiesto se volevo tornare e ho risposto subito di sì. Negli anni ‘80, lo dico anche nel libro, accompagnai una mia ex fidanzata a vedere Tina Turner all’Arena di Verona; io non ero particolarmente suo fan, ma puntavo sulla gratitudine post-concerto. Dopo essere entrato per la prima volta all’Arena, rimasi di sasso: per tutto il concerto, che comunque mi piacque, continuavo a ripetermi che cantare lì sopra doveva essere una gran fortuna. L’Arena di Verona è diventato poi il posto in cui ho fatto più concerti nella mi vita, credo tra i 25 e i 30. Quindi... basta solo che me lo chiedano e io mi presento!